Onorevoli Colleghi! - La presente proposta di legge si prefigge di contrastare la precarizzazione dei rapporti di lavoro seguita alla cosiddetta «liberalizzazione dei rapporti a termine», introdotta nel nostro ordinamento giuridico dal decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, che ha sostituito la vecchia (e restrittiva) legge 18 aprile 1962, n. 230, e dai provvedimenti successivi di parziale liberalizzazione.
      La presente proposta di legge non si ripromette un ritorno al sistema delle cause astratte di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro sulle quali invece era imperniata la vecchia legge 18 aprile 1962, n. 230, sistema poi degenerato con la moltiplicazione e l'esagerato ricorso alle causali stesse per effetto di leggi e di contratti collettivi nazionali di lavoro successivi. Essa assume, invece, quale principio il controllo rigoroso del carattere effettivamente temporaneo dell'esigenza produttiva per la quale il contratto a termine è stipulato e del nesso di causa-effetto tra quella esigenza e l'apposizione del termine allo specifico contratto, tutti fatti che implicano, in primo luogo, un accentuato formalismo del contratto di lavoro stipulato tra le parti (sempre e in ogni caso antecedente l'inizio della prestazione lavorativa), nel cui testo quelle giustificazioni devono essere compiutamente espresse, e, in secondo luogo, comportano in capo al datore di lavoro l'onere della prova della loro efficacia, pena la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
      Al rigore di questa regolamentazione si è risposto, non da oggi e con abuso, con il ricorso al contratto di lavoro a termine particolarmente nel settore terziario, dove questo contratto svolge, purtroppo, una funzione intimidatoria sui lavoratori, i quali, ignorando che l'apposizione del termine non è, in realtà, «libera», sottostanno sovente a prevaricazioni e a illeciti

 

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imposti loro nella speranza di un rinnovo o della trasformazione dello stesso rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
      Il controllo sulla legittima apposizione del termine non può, però essere relegato al semplice accordo tra le parti, o eventualmente effettuato dal giudice, ma deve essere esercitato anche dalle rappresentanze sindacali. E invero la presente proposta di legge prevede in favore dei sindacati il diritto all'informazione e il diritto di prevedere e di stabilire nel contratto collettivo nazionale di lavoro la percentuale massima dei lavoratori assumibili, in ogni singola azienda, con rapporto di lavoro a tempo determinato.
      Rispetto, dunque, all'intervento sindacale in questa materia, la presente proposta di legge reintroduce la possibilità di prevedere nei contratti collettivi di lavoro specifiche ipotesi di apponibilità del termine, purché si tratti sempre di esigenze oggettive e di attività temporanee (e non di caratteristiche soggettive dei lavoratori da assumere) e purché si tratti di contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati unitariamente dai sindacati comparativamente più rappresentativi.
      Tali caratteristiche della fonte collettiva dovrebbero rassicurare molti osservatori comprensibilmente critici sulla funzione svolta, in passato, in questa materia dalla contrattazione separata, conclusa da sindacati sospettati di connivenza con le controparti e a un livello, territoriale o aziendale, dove potevano facilmente operare suggestioni clientelari.
      Stabilire, invece, che la funzione normativa è demandata dalla legge alla contrattazione collettiva (di cui il nostro ordinamento conosce e conoscerà molti esempi), condizionata solo dal principio di rappresentatività massima, perché richiedente l'unanimità dei sindacati comparativamente più rappresentativi, costituisce un'importante innovazione che riequilibra il sistema delle fonti formalmente e materialmente legislative. Se si accetta, come ormai l'ordinamento ha accettato, che norme di diritto oggettivo possono essere poste dall'autonomia collettiva, su delega «in bianco» del legislatore, occorre quanto meno giustificare questa evidente eccezione agli ordinari criteri costituzionali con una rappresentatività altissima nell'ambito di ogni categoria.
      La previsione introdotta nella delicata materia dei contratti di lavoro a termine può dunque fungere da prototipo e sanare tutte quelle altre ipotesi nelle quali, da un lato, l'ordinamento non può rinunciare ad adeguare la normativa alla dinamica dei rapporti tra le parti sociali, e, dall'altro lato, il pericolo di accordi separati, ossia, dall'angolo visuale della giustificazione dell'efficacia generale della previsione che viene introdotta dalla norma, di abusi di rappresentanza.
      È inoltre notorio che la problematica principale dei contratti di lavoro a tempo determinato non è, forse, neanche quella della legittimità iniziale dell'apposizione del termine, quanto quella della ripetizione delle assunzioni a termine, ossia dei contratti competenti «a catena». È questa la tipica condizione, difficilissima dal punto di vista esistenziale, del precario permanente, il quale certamente ottiene da un datore di lavoro (tipicamente in occasione di punte produttive stagionali) la stipula di più contratti di lavoro a termine, ma senza certezza alcuna del prossimo contratto, e meno che mai di assunzione definitiva a tempo indeterminato. Il risultato può essere solo quello di una sudditanza psicologica verso l'impresa e di un profondo malessere esistenziale stante l'impossibilità di formulare un progetto di vita.
      La legislazione vigente dunque, rappresentata dal decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, ha obiettivamente favorito tale condizione dei lavoratori a termine, avendo, da una parte, consentito la ripetibilità all'infinito dei contratti di lavoro a termine (purché il datore di lavoro abbia l'avvertenza di far trascorrere venti giorni tra la fine del precedente e la stipula del successivo) e, dall'altra parte, ha abolito quel «diritto di precedenza» nelle nuove assunzioni che, almeno nelle lavorazioni stagionali, garantiva al lavoratore a termine una seppur minima prospettiva di futuro.
 

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      Con la volontà di precarizzare il lavoro si è però andati oltre il segno, poiché la previsione della fissazione di un limite temporale massimo complessivo di lavoro a tempo determinato alle dipendenze di uno stesso datore di lavoro, che il legislatore italiano ha omesso di prevedere, è invece presupposta e imposta nella disciplina europea, ragione per la quale sul punto è comunque necessario legiferare, soprattutto dopo le recenti pronunzie della Corte di giustizia delle Comunità europee.
      Per concludere, onorevoli colleghi, il problema non è solo quello di limitare la possibilità di apposizione del termine al contratto di lavoro alla ricorrenza di esigenze produttive davvero temporanee, e di perseguire gli abusi, ma anche quello di porre un limite alla ripetibilità, per lo stesso lavoratore, di contratti di lavoro a termine, ancorché singolarmente legittimi, onde emancipare lo stesso dalla condizione di eterno precariato.
      A quest'ultimo problema la presente proposta di legge fornisce una soluzione laddove prevede, anzitutto, il diritto del lavoratore a termine ad essere preferito in caso di nuove assunzioni sia a termine, sia a tempo indeterminato, e di passare, comunque, a tempo indeterminato ove sia stato occupato presso lo stesso datore di lavoro per più di diciotto mesi negli ultimi cinque anni. Di particolare rilievo è l'applicabilità della normativa del contratto a termine anche agli enti pubblici istituzionali, i quali dovranno, peraltro, indire procedure concorsuali anche per l'assunzione di lavoratori a termine, quale garanzia di idoneità professionale nel caso di trasformazioni, per ragioni sopravvenute o per vizi originari del contratto, in rapporti di lavoro a tempo indeterminato.
 

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